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Il buddhismo tibetano

Cosa conosciamo noi in Italia del buddhismo tibetano? Sappiamo che è nato in Tibet, come giustamente dice la parola, che i monaci sono vestiti di rosso scuro e che il “capo” di tutti i devoti è il Dalai Lama. E poi? Tutto qui?

C’erano una volta Siddharta Gautama e il buddhismo, ma questo già lo sappiamo. Tuttavia, dopo la morte di Buddha come già detto nella precedente pillola, iniziarono a spuntare come funghi altre correnti di pensiero: il Theravada, il Mahayana e, infine, il Vajrayana, ovvero il buddhismo tibetano. Ma quali sono le differenze tra loro?

Il Mahayana

Il Mahayana, termine sanscrito che significa  “Grande Veicolo”, veicolo inteso come mezzo per raggiungere l’illuminazione, è la corrente di pensiero che interessa a noi per arrivare al buddhismo tibetano. Le origini di questo movimento non si conoscono, come anche una data certa in cui sono apparse le sue prime opere, chiamate Sutra. Siamo però intorno al primo o secondo secolo d.C. e, tra gli insegnamenti di questa corrente che si aggiungono a quelli di Buddha, ritroviamo: il bodhisattva, il karma e la rinascita. 

A differenza di una delle prime scuole post buddhismo, ovvero il Theravada in cui la ricerca della liberazione veniva perseguita solo per scopi personali, nel Mahayana viene introdotta la figura del bodhisattva: colui che rinuncia all’ottenimento del nirvana, ovvero alla liberazione dal ciclo delle rinascite, per poter aiutare gli altri. Bodhisattva non ci si nasce, ma ci si diventa attraverso la pratica di generosità, compassione, saggezza, etica, pazienza, sforzo e concentrazione. Ma facciamo un passetto indietro perché prima di introdurre il bodhisattva ho accennato a nirvana e liberazione dal ciclo delle rinascite: cosa significa esattamente? 

Il dharma, il karma e i tre gioielli

Come nell’induismo, anche nel buddhismo la vita che ora viviamo è solamente una di una lunga serie di esistenze. Esistenze in cui si praticano delle azioni, positive e negative, che generano il karma: una sorta di zainetto, che ci portiamo dietro in ogni reincarnazione, e che determina molti accadimenti nel corso della nostra vita. In che senso? Causa ed effetto. Le azioni negative generano avvenimenti non felici mentre le azioni positive generano felicità. E come possiamo controllare questo?

Non possiamo. O per lo meno possiamo seguire una condotta positiva in qualsiasi cosa, esperienza, rapporto che viviamo in questa esistenza, perché il carico dello zainetto delle vite precedenti purtroppo non lo conosciamo. E per far sì che la nostra prossima reincarnazione sia nuovamente sotto forma di essere umano, e non di animale o demone, bisogna compiere più azioni positive possibili: e questo percorso ha un nome ovvero “praticare il Dharma”. Quindi un buddhista, motivato da questo, sceglie di prendere rifugio nei Tre Gioielli: il Buddha e il Dharma, di cui ho già parlato, e infine il Sangha, ovvero il trovar sia il piacere nella pratica del Dharma e sia impegnarsi nella pratica degli insegnamenti del Buddha. Ma dal buddhismo delle origini e soprattutto dal Mahayana, come si arriva a quello tibetano? 

Dal Mahayana al buddhismo tibetano

Siamo in Tibet, stato in cui, prima dell’avvento del buddhismo, era diffusa la tradizione Bon: un mix di pratiche magiche e sciamaniche che è stata per secoli l’unica religione praticata. Ma, nell’ottavo secolo, anche in Tibet giunse il buddhismo. E come? C’era una volta il re Songtsen Gampo che, non contento di una sola moglie, ne sposò due: una cinese e una nepalese. In quel tempo, in entrambi gli stati vicini, il buddhismo era già diffuso. E cosa portarono le due spose in terra tibetana? Statue e testi buddhisti. E fu così che nacque il buddhismo tibetano? Ovviamente no, perché fu il re successivo, ovvero Trisong Detsen, a dar inizio a questa religione. E come? 

Invitando dall’India due personaggi fondamentali: il monaco Shantarakshita e lo yogi tantrico Padmasambhava. E se il monaco portò con sé i Sutra del Mahayana, la spinta fondamentale alla costruzione del buddhismo tibetano la diede Padmasambhava, considerato ancor oggi dai tibetani il padre fondatore della loro religione e il secondo Buddha. Ma chi era Padmasambhava? E cosa portò con sé in Tibet? 

Il mio cammino tibetano da Lhasa a Dharamsala Marilena Pepe Donne In giro
Padmasambhava, Monastero di Samye, Tibet

Padmasambhava: dall’India al Tibet

Guru Rinpoche, nome molto più famoso con cui è conosciuto Padmasambhava e che in tibetano significa “Maestro Prezioso”, apparve in India in un luogo che oggi, dopo l’indipendenza indiana e la divisione del territorio, appartiene al Pakistan. Perché ho detto apparve e non nacque? La storia, intersecata alla leggenda, narra che lui sia stato trovato all’età di otto anni, dal re Indrabodhi, seduto su un fiore di loto e con in mano il Vajra, oggetto sacro utilizzato oggi dai monaci tibetani durante le preghiere. Il re, colpito da questo incontro, decise di portare il ragazzino a casa sua e di renderlo principe. Principe a cui diede il nome di Padma Vajra: Padma che significa loto e Vajra che significa diamante.

Ma, proprio come Buddha, che tra l’altro durante la sua vita annunciò l’arrivo di Padmasambhava nei secoli successivi, anche lui in un palazzo non si sentiva completamente a suo agio. Però, al contrario di Siddharta che uscì silenziosamente dalla vita di corte, Padmasambhava, che era un po’ più dispettoso, decise di farsi cacciare. E da quel momento in poi, girando l’India e arrivando fino in Nepal, le sue conoscenze tantriche e sciamaniche crebbero sempre di più. Finché non venne chiamato dal re tibetano: e quindi, Padmasambhava, cosa portò lì nella sua valigetta?

Le caratteristiche del buddhismo tibetano

E così, dal Nepal, Padmasambhava partì alla volta del Tibet con una serie di cose nella sua valigetta: il tantra, i suoi insegnamenti e le sue pratiche, come i mantra, i mandala e i mudra che, aggiunti al Mahayana e alla tradizione Bon, diedero inizio al buddhismo tibetano. Ecco perché il nome ufficiale di questa religione è Vajrayana: in sanscrito significa “Veicolo del diamante”, e il diamante è la sostanza più dura che esista, proprio come la saggezza. Saggezza già presente nel nome che il re diede a Padma Vajra.

Ma il tantra, i mudra, i mantra e i mandala cosa sono esattamente? E i monasteri tibetani come sono fatti? Invece i luoghi più importanti di questa religione quali sono? E perché Padmasambhava è considerato il secondo Buddha dai tibetani? Ammetto che potrei dirvi un sacco di altre cose. Vorrei ma non posso. Perché a me, di solito, non piacciono gli spoiler. Figuriamoci quelli sul mio libro! 🙂

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